3 dic 2011

Rivolta d'Egitto/2. Non c'è bisogno di attendere i risultati ufficiali del primo turno elettorale in Egitto per ricavarne alcune conferme sul futuro del paese e più in generale sulla cosiddetta primavera araba. La vittoria dei partiti islamici (al blocco dei Fratelli Musulmani sarebbe andato il 40% dei voti, ai salafiti circa il 20%) inquieta ma non può sorprendere, e forse occorre ripartire proprio da quell'ampia minoranza che ha preferito votare formazioni laiche in un contesto altamente confuso, in cui i militari governano le istituzioni e i musulmani la piazza.
Le parole sono importanti e allora partiamo dalla terminologia. Ne avevo già scritto qui, qualche anno fa, a proposito del quadro politico iraniano e delle definizioni che di esso forniva la stampa occidentale. L'uso del termine conservatore, per indicare gli islamisti, è del tutto fuorviate. Se è vero che i musulmani d'Egitto (nelle loro varie declinazioni) sono fautori della tradizione islamica nel campo della cultura e dei costumi, rispetto alla situazione politica assumono per contro una posizione di rottura più o meno netta con quanto li ha preceduti. In realtà i Fratelli Musulmani e ancora di più i salafiti non vogliono conservare un bel niente, semmai cambiare il più possibile in base alle loro credenze religiose e alla loro visione della società (semplifico). Se proprio vogliamo applicare definizioni proprie della nostra dottrina politica a situazioni così distanti sotto tutti i punti di vista, dovremmo dire che è l'esercito la forza conservatrice all'interno della società egiziana, in quanto si è dato l'obiettivo di mantenere le strutture di potere dell'ancien régime. Ma anche in questo caso si tratterebbe di un errore: l'esercito è l'erede della dittatura, non espressione di un blocco sociale conservatore che si esprime attraverso i meccanismi della rappresentanza parlamentare. Purtroppo la macchina inarrestabile del politicamente corretto continua a far danni e, siccome il termine conservatore richiama una nozione di destra che i media sono ben contenti di mettere alla berlina appena possono, ecco che come per magia gli islamisti radicali o i fondamentalisti diventano conservatori. Ma nel mondo arabo e in Iran la conservazione morale e quella politica sono concetti diversi, spesso antitetici. La pigrizia intellettuale e l'incapacità di contestualizzare sono invece gli unici concetti che il giornalismo occidentale sembra ormai capace di esprimere.
E veniamo al giudizio di valore sull'affermazione dei partiti islamici, in Egitto come in Tunisia e probabilmente in tutti i paesi arabi in cui si voterà. Non so se la professione di moderazione dei Fratelli Musulmani sia autentica. Visti il loro passato e le loro radici ideologiche c'è da dubitarne. E' certo però che, all'interno del blocco sociale da essi rappresentato, esistono sensibilità diverse rispetto a quel che deve essere l'Egitto post-Mubarak. Si va dagli integralisti ai pragmatici, basta leggere le dichiarazioni dei loro leaders o ascoltare le opinioni di chi li ha votati. Da qui ad assegnare loro la patente di democratici, ancora prima di conoscerne le reali intenzioni una volta raggiunti i vertici dello stato, o assimilarli all'AK Party di Erdogan, c'è un mondo. Però i riflessi condizionati di esperti e analisti occidentali sono già scattati e, complice anche la parallela affermazione degli estremisti - questi sì - salafiti, è cominciata l'operazione di sdoganamento dei Fratelli Musulmani, neanche fossero la Democrazia Cristiana. In realtà nessuno sa cosa succederà nei prossimi mesi e certamente non dipenderà solo dalle dinamiche interne della politica egiziana. E qui torniamo come sempre alla ritirata dell'occidente, abilmente capitanata da Washington. Mentre Obama fa l'albero di Natale alla Casa Bianca e spedisce la Clinton in Birmania a stringere la mano ai generali in borghese, la Turchia estende la sua influenza in medioriente, l'Iran e la Corea del Nord inviano consiglieri militari a supporto di Assad, il Qatar muove Al Jazeera e i suoi petroldollari per dirigere gli avvenimenti e navi russe navigano verso i porti siriani. Noi, from behind. Possibile che si sia passati in così pochi anni dall'attivismo pro-democracy più spinto al ruolo passivo di osservatori internazionali? Possibile che, senza manipolare in nessun modo la volontà del popolo egiziano, non si sia riusciti in questi mesi a spingere per il consolidamento di un fronte laico che potesse almeno provare a contrastare la marea montante dell'islamismo più o meno radicale? Possibile che i tentativi di nation building abbiano lasciato spazio a questo ostentato disinteresse per le sorti di un'area chiave del pianeta la cui trasformazione può ancora essere, se non eterodiretta, almeno coadiuvata?
Se il 60% degli elettori ha scelto l'islamismo nelle prime elezioni parzialmente libere della storia egiziana è anche perché anni di regime, di società chiusa, di amputazione del pensiero politico, hanno provocato una semplificazione estrema e la conseguente radicalizzazione del quadro politico. Fu la grande intuizione di Bush: appoggiare gli autocrati in funzione anti-fondamentalista produce alla lunga l'effetto contrario. Solo dove le opinioni possono circolare e confrontarsi nascono opzioni diverse per i cittadini e le idee fanatiche perdono consistenza. Per questo credo che, anche se il risultato può non piacerci, valga comunque la pena scommettere sulla democrazia, per quanto embrionale, per quanto imperfetta: nell'Egitto dei Fratelli Musulmani come nella Palestina di Hamas. Dobbiamo considerare quanto sta avvenendo nei paesi arabi come la prima ondata di un cambiamento che richiederà diverse generazioni per compiersi. Se la dittatura ha lasciato spazio agli islamisti, ovvero alle uniche formazioni politiche che sono state in grado di organizzarsi e crescere all'ombra di Mubarak, la pratica politica e l'esercizio di governo cui questi gruppi saranno chiamati non potrà che trasformarli, almeno in parte. E se non loro, almeno trasformerà la società egiziana che, proprio grazie alla riconquista di una centralità fino ad oggi negata, modellerà gradualmente una coscienza civile che verosimilmente - con gli anni - porterà al ridimensionamento delle posizioni estremiste. Questa è la grande scommessa che l'occidente ha davanti a sé ed è anche l'unico cavallo su cui puntare, vista la resilienza delle forze reazionarie al governo nei paesi arabi, la portata ancora incerta delle rivolte popolari e la loro mancanza di uniformità e coerenza. Sarebbe meglio crederci, altrimenti ci penserà qualcun altro.

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